The Statue
Carlo Severi (EHESS, Paris)
Pietra Viva, movimento implicito, parer vivo e antropologia dell’arte
Virtual Room – March 9, 2021. 17:00/19:00
Ivan Bargna (Bocconi, Milano)
Biografia e vita sociale degli edifici. Il caso del nemo di Bandjoun (Camerun)
Virtual Room – March 30, 2021. 17:00/19:00
Jesus Ortiz (IIT, Genova)
The Aesthetics of Exoscheletons
Virtual Room– April 27, 2021. 17:00/19:00
Nicola Liberati (Jiao Tong, Shanghai)
New Ways of “Being in Touch”. A Phenomenological Analysis of the Use of Haptic Devices for Intimate Relations
Virtual Room – May 18, 2021. 17:00/19:00
Caroline van Eck (King’s College, Cambridge)
“Ah, je me sens”. Sculpture Viewing in the 19th Century in Rome and Paris
“Virtual Room – June 8, 2021. 17:00/19:00
SEE BELOW:
Pietra Viva, movimento implicito, parer vivo e antropologia dell’arte
Carlo Severi (EHESS, Paris)
Abstract
L’Illusione dello spazio e l’evidenza del legame in due “statue dipinte” del Mantegna. Nel suo “Traité de l’évidence”, Fernando Gil propone una definizione del concetto di evidenza che possiamo sviluppare proficuamente. Secondo Gil, occorre distinguere due aspetti di questo concetto: il primo si basa sull’equivalenza tra “vedere” e “conoscere”, tradizionale nella cultura Occidentale, si applica al discorso (matematico, per esempio) e designa la conoscenza “intuitiva” e immediata di un fenomeno. Il secondo, al contrario, si fonda sull’idea di sguardo attivo, inteso come mezzo per stabilire un contatto visivo, una relazione con l’altro. L’intuizione del legame che la “parvenza divina” realizza all’interno della prospettiva opera una sintesi tra questi due aspetti dell’evidenza. Attraverso l’illusione spaziale, la prospettiva unisce una certa epistemologia dello sguardo – la verità di quel che si vede nell’apprensione immediata –, con l’idea, legata all’esercizio attivo dello sguardo e del contatto visivo, di stabilire una relazione tra l’immagine e chi la guarda. Mostrerò che nelle due statue dipinte prese insieme, il lavoro del Mantegna non consiste solamente nel materializzare una buona illusione – nel senso tecnico del termine –, ma anche nel trasformare l’illusione dello spazio nell’evidenza del legame. Qui sta la radice della vita dell’immagine e del movimento implicito che la anima.
Bio
Carlo Severi insegna all’EHESS di Parigi ed è associato al CNRS. Membro del laboratorio di antropologia sociale al Collège de France dal 1985, ha lavorato dapprima sulla tradizione sciamanica degli Indiani Kuna di Panama, studiando da un lato le teorie indigene della malattia mentale e dall’altro le modalità di trasmissione del sapere sciamanico. Ha quindi sviluppato un’analisi comparativa delle arti mnestiche e ha formulato con Michael Houseman una teoria del rituale, fondata sull’analisi relazionale delle azioni. Attualmente lavora sulle forme di soggettività (definite dall’azione, la parola e lo sguardo) attribuite agli artefatti. Tra le sue molte pubblicazioni tradotte in diverse lingue si ricordano: La memoria rituale (La Nuova Italia, Firenze 1993); Naven ou le donner àvoir (con M. Houseman, Maison Des Sciences De L’homme, Parigi 1994), e Le Principe de la chimère. Une anthropologie de la mémoire (RUE D’ULM/Musée du Quai Branly, Parigi 2007); Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria (Einaudi, Torino 2004) e L’oggetto persona. Rito, memoria, immagine (Einaudi, Torino 2018).
Biografia e vita sociale degli edifici. Il caso del nemo di Bandjoun (Camerun)
Ivan Bargna (Università degli Studi Bicocca, Milano)
Abstract
Bandjoun è una cittadina del Grassland camerunese: un villaggio rurale, ma anche una delle chefferie storicamente più importanti della regione bamileke e uno dei centri nevralgici della vita sociale ed economica del Camerun contemporaneo; da lì provengono infatti alcuni degli uomini più ricchi del Camerun. È a Bandjoun che, dal 2002, sto conducendo la mia ricerca etnografica. Il nemo è una grande capanna con pali scolpiti che costituisce il “ventre” (vam) della chefferie di Bandjoun, uno dei suoi luoghi più sacri. Nella ricca iconografia di suoi pali scolpiti si ritrovano le figure di antenati e quelle di giocatori di calcio. Si tratta di un dispositivo politico la cui genesi è tutta interna alla situazione coloniale e come per tanta “arte africana di corte”, è stato ed è parte di un’economia della visibilità (ostentazione e costruzione di segreto) che si rivolge tanto all’interno che all’esterno della comunità: dispositivo di creazione del consenso, di espressione del dissenso e strumento per allacciare relazioni diplomatiche facendo delle tradizioni visuali locali un’arma per reggere le sfide della contemporaneità. Guardare al nemo in termini di processo, di biografia e vita sociale delle cose, significa acquisire una prospettiva che consenta di individuare altre strategie, più dinamiche, messe in atto dagli agenti locali. Un approccio di questo tipo consente, in particolare, di essere più sensibili agli scarti e alle discontinuità fra il dire, il mostrare e il fare e di comprendere come la realtà di questo edificio e delle statue che vi compaiono non sia l’esito coerente della realizzazione di un progetto, ma stia nel comporsi sempre congiunturale e precario di intenzioni divergenti, vincoli, casi e chance.
Bio
Professore ordinario all’Università di Milano-Bicocca dove insegna Antropologia estetica e Antropologia dei media. È presidente del corso di laurea in Scienze Antropologiche ed Etnologiche direttore del corso di perfezionamento in Antropologia Museale e dell’Arte e docente di Antropologia culturale all’Università Bocconi. Dal 2001 conduce le sue ricerche etnografiche in Camerun dove si occupa di pratiche artistiche e cultura visuale. Collabora con artisti e curatori d’arte contemporanea nella realizzazione di progetti interdisciplinari basati su pratiche etnografiche. È membro del comitato scientifico del Museo delle Culture di Milano e curatore di mostre. Tra le sue pubblicazioni: Arte africana (Jaca Book, Milano 1998; St. Léger Vauban 1998; New York and London; 2000; Madrid 2000); Africa (Electa, Milano 2007; Berlino 2008; Los Angeles, 2009); Biografia plurale. Virginia Ryan: Africa, arte e altrove (Fabbri Editore, Milano 2018).
The Aesthetics of Exoscheletons
Jesus Ortiz (IIT, Genova)
Abstract
The first concepts of wearable mechanical devices to assist people originated in the late 19th century. These systems are commonly known as “exoskeletons” due to their similarity to biological exoskeletons existing in nature, for example in insects or crustaceans. These are rigid articulated structures (skeleton) that are placed on the outside (exo) of the animal body. While science fiction has brought mechanical exoskeletons into the future, space and superheroes suits, these devices do exist today and are used in a wide range of applications. From military applications to improve the resilience of soldiers, to devices that allow paraplegics to walk again, including exoskeletons that help reduce back pain for industrial workers. The development of these devices has grown significantly in recent years and it will be common to see them every day in multiple scenarios. At IIT, we have developed prototypes of rigid exoskeletons for industrial applications and soft exoskeletons (also known as exosuits) to assist people with walking difficulties. We continue to improve the technologies needed to develop lighter weight exoskeletons with improved performance and greater usability.
Bio
PhD in New Automobile Technologies, University of Zaragoza (2008). He worked as a researcher in the Area of Transports and in the Area of Mechanics of the Department of Mechanical Engineering of the University of Zaragoza. In 2004 he was guest professor at the “ENSI de Bourges”. From 2006 he is working at the Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) and he is currently the leader of the exoskeletons group (XoLab) at the department of Advanced Robotics (ADVR). His principal research field is industrial exoskeletons and soft wearable assistive devices. Previous research experience includes motion bases, driving simulators, teleoperation, telepresence, tele existence, virtual reality, GPGPU computing and medical robotics. He has participated in 6 European Projects, being the coordinator of the XoSoft EU Project, and in more than 10 international and national projects, including the management of three projects co-funded by the Italian Workers Compensation Authority (INAIL). He has over 80 international publications. He has received two awards in 2005 for two different research works about teleoperation and driving simulators, and in CLAWAR, WeRob and CBS conferences for his works on exoskeletons.
New Ways of “Being in Touch”.
A Phenomenological Analysis of the Use of Haptic Devices for Intimate Relations
Nicola Liberati (Jiao Tong, Shanghai)
Abstract
Questo incontro parlerà di robot e della loro “vita” sentimentale con le persone, cercando di evidenziare attraverso la fenomenologia e il nuovo materialismo i vari aspetti che rendono “vivi” gli oggetti. Abitiamo in un mondo saturo di “statue” virtuali e digitali, come possono essere i robot e le virtual idols. Queste entità sono sicuramente corpi morti come lo sono le statue di marmo, ma ci dobbiamo chiedere se questi corpi non abbiano “attività” e una “vita” personale per comprendere meglio gli effetti che hanno sul mondo. I robot e altre “statue” digitali possono “agire” sul mondo? Possiamo dire che i robot sono “vivi” in qualche loro aspetto? Queste domande possono sembrare banali, ma diventano di grande importanza se consideriamo i rapporti sentimentali che le persone possono avere con i robot e altre entità digitali. Le persone amano i loro robot e le loro virtual idols come se fossero persone vive a tutti gli effetti. Bisogna quindi sviluppare una sensibilità filosofica che riesca a comprendere come queste relazioni siano possibili, partendo dall’analisi dal legame che questi oggetti hanno con i soggetti, senza escludere a priori una loro attività e vita interna.
Bio
Nicola Liberati è professore associato presso il Dipartimento di Filosofia della Shanghai Jiao Tong University (SJTU), dove si occupa degli effetti delle nuove tecnologie digitali sulla società, lavorando insieme a ingegneri, designer e artisti. È risultato vincitore dell’“Overseas High Level Talent Program [海外高层次人才计划] 2021” e di altri premi e finanziamenti internazionali come il JSPS Postdoctoral researcher (Japan), l’ERASMUS + (EU), il MASH’D Award (ISMAR2015), e il Best Paper by a Returning Member (SPM2014). È autore di oltre cinquanta pubblicazioni internazionali. È vice presidente della Society for Phenomenology and Media (CA, USA) e ethical advisor per il progetto di ricerca ERC “FACETS” (PI: Prof. Massimo Leone).
“Ah, je me sens”.
Sculpture Viewing in the 19th Century in Rome and Paris
Caroline van Eck (King’s College, Cambridge)
Abstract
‘Ah, je me sens’: this is what Pygmalion’s bride exclaims in Rousseau’s melodrama Pygmalion when the transformation from inanimate statue to living, conscious being is achieved. It would be echoed many times in the final decades of the eighteenth century, but not so much by statues coming alive as by viewers who would touch statues, and in doing so felt themselves to become fully alive. Claiming that statues were so lifelike that they seemed to be alive had been a topos in rhetorical ekphrasis and literary criticism from Antiquity onwards, but around 1800 a fundamental change took place. As a result of Kant’s writings on the disinterested nature of aesthetic enjoyment such responses had become increasingly suspect — Hegel would speak of ‘hervontatschelnde Kunstfreunde’, or groping art lovers — and would be dismissed into the realms of hysteria and primitivism. Yet despite the impact of German Idealist aesthetics, museum visitors would continue to enjoy settings in which statues would appear to be alive, and seek out the uncanny frisson of the inanimate seeming to be alive. The torch-lit visit and the tableau-vivant would remain very popular until the 1830s as the occasions for such experiences. In my talk I will first discuss a series of accounts of such viewing of sculpture to understand the contemporary dispositif imaginaire that would encourage viewers to let go of their normal awareness that statues are inanimate blocks of stone and to engage instead in all kinds of imaginative scenarios in which the statues appear to be alive, sentient, conscious, and endowed with an inner life and biography. In the second part I will then contrast these dispositifs with the account Alfred Gell gave of such responses in terms of agency, animacy and personhood.
Bio
Caroline van Eck is Professor of Art History at the University of Cambridge and a Fellow of King’s College, Cambridge. She has taught at the Universities of Amsterdam, Groningen and Leiden, where she was appointed Professor of Art and Architectural History in 2006. She has been a Visiting Fellow at the Warburg Institute and the Paul Mellon Centre for British Art at Yale University, and a Visiting Professor in Ghent, Yale and York. She was Professor of Art and Architecture before 1800 at Leiden University. In 2020 van Eck was elected a fellow of the Academia Europaea and of the British Academy. Her main research interests are art and architectural history and theory of the eighteenth century and early nineteenth century; classical reception; the anthropology of art.